![]() 11 Luglio 1999 |
- TIZIANA BOARI* -
D ue funzionari Osce uccisi a Pristina. La notizia irrompe mentre scrivo, qui a Roma. E riapre una ferita. Raccontare ancora una volta ciò che accadde e soprattutto non accadde durante la missione di verifica dell'Osce in Kosovo, non è cosa semplice. L'opinione pubblica internazionale si interroga oggi sulla sorte dei serbi e dei rom, perseguitati dagli squadroni della morte kosovari, qualche mese fa fremeva di sdegno alla vista dei profughi albanesi del Kosovo, lasciati marcire nei campi.
Io ero tra questi. Fui la prima donna a partire da Roma. Un'avventura che per me iniziò a fine novembre dell'anno scorso, quando il ministero degli Affari Esteri mi comunicò che ero stata scelta come "media development advisor" (consigliere per lo sviluppo dei media) della Kosovo Verification Mission (Kvm). Ero stata in Bosnia tra il 1995 e il 1996 e il Kosovo completava la mia esperienza balcanica.
In tutta fretta la Farnesina mi convocò un venerdì per consegnarmi il biglietto aereo e qualche documentazione, piuttosto inutile, sull'abbigliamento e gli accessori necessari. Il contratto sarebbe arrivato in seguito dalla sede centrale dell'Osce a Vienna. Il 6 dicembre ero già in aereo diretta a Skopje. Prima tappa: il Centro di addestramento, aperto e condotto dai "militari" italiani del colonnello Mario Righele all'Hotel Narcis di Brezovica, una località kosovara a maggioranza serba, vicina al confine macedone. Lì trovai un'altra italiana, Graziella, proveniente dalla missione Osce in Bosnia, e circa una cinquantina di altri "novellini" come me.
Italiani, scandinavi, due tedeschi, un nutrito gruppo di ex sovietici (tra i quali spiccava l'unica, timorosissima kazaka della missione), inglesi e americani. I britannici e gli americani facevano parte delle rispettive missioni diplomatiche di osservazione (Kdom) che, partite già in agosto e stanziatesi rispettivamente a Prizren e Kosovo Polje (nei pressi di Pristina), avrebbero dovuto poi sciogliersi e confluire nella Kvm. Lo stesso valeva per i russi, basati a Gnijlane, per i canadesi di stanza a Pec e per l'Ue, che si muoveva tra Pristina e Pec.
Il corso, una piacevole novità rispetto alle altre missioni internazionali, dava un quadro completo dei vari aspetti che saremmo andati ad affrontare, fornendo in modo compatto e sistematico informazioni di carattere culturale, storico, militare, logistico. Mi colpì soprattutto la parte militare, molto informativa per chi non ne sapeva molto come i civili "genuini", e forse un po' noiosa per i militari in borghese presenti, molti dei quali appartenevano ai corpi speciali delle loro rispettive nazioni. Una sera mi capitò di chiacchierare con un berretto verde "travestito" da ufficiale medico, il quale mi disse che, tempo due mesi, ce ne saremmo tornati tutti a casa. Lì per lì non ci feci caso: più tardi, a catastrofe avvenuta, ci ripensai spesso.
Con un organigramma non ancora definito, la strada si apriva allo sgomitare collettivo per i posti migliori e il potere maggiore, in modo spesso autonomo dal quartier generale di Vienna. Il problema che dovetti affrontare subito, tra gli altri, era la assoluta mancanza di comunicazione interna all'ufficio del portavoce e a tutto il settore stampa e informazione pubblica. Niente riunioni, neanche su base settimanale, nessuna indicazione strategica, nessun aggiornamento sulla situazione generale. A livello di personale locale, la maggioranza albanese era schiacciante.
L'altro problema immediato fu la casa. Il prezzo degli affitti superava quelli romani. A Pristina allora un medico guadagnava 250 marchi e un giornalista albanese benestante 600 marchi al mese. Capii che la nostra sarebbe stata essenzialmente una "income generation mission", ovvero una missione di generazione di reddito per la popolazione locale. Dai nominativi dei potenziali affittuari vidi che erano quasi tutti albanesi: i serbi dov'erano finiti?
Pristina è una delle città più cupe che io abbia mai visto in anni di viaggi in giro per il mondo. In città non c'è neanche un piccolo corso d'acqua a spezzare la visione desolata di tutti quegli edifici così disordinatamente sdraiati su due colline. Mi mancavano l'acqua e la storia. Soltanto in qualche angolo, nella zona delle antiche moschee, restano (o restavano?) tracce tangibili del passato ottomano. Segni caratteristici: corvi e immondizia. I netturbini locali alle dipendenze dell'amministrazione provinciale serba (il Kosovo Executive Council) erano rom, ovvero zingari, che, vestiti di giallo, si vedevano ogni tanto ramazzare le strade cittadine tra le case incompiute. Rom era anche l'assessore per l'informazione e le lingue delle minoranze, Bajram Haliti: un letterato, presidente del Centro studi per la memoria dell'Olocausto degli zingari a Gnjilane.
Grazie alla mia assistente, palesemente schierata per l'Uck tanto da diventare poi imbarazzante per me prima che per l'organizzazione, trovai casa nel quartiere misto di Ulpiana, dove abitai due settimane con un collega ravennate nell'appartamento di Nehat, giornalista kosovaro albanese, persona colta e squisita.
I settori in quel momento più attivi della Kvm, oltre al monitoraggio dei media e l'attività del portavoce, erano quello dei diritti umani con l'ufficio per i desaparecidos (in serbo "nestali") e le operazioni, in salda mano anglo-americana, sebbene con determinante presenza tedesca.
A metà dicembre apprezzai molto l'interessamento dei vertici della missione alla sorte degli scomparsi serbi, ma, a parte questo zelo iniziale, forse dovuto al problema dei parenti delle vittime che bivaccavano da due giorni sotto il nostro quartier generale e sembravano piuttosto determinati ad ottenere udienza, non mi risulta che a questo sia stato dato un seguito rilevante. Anzi: testimonianze raccolte più tardi parlano di una vera e propria schedatura compiuta da alcuni funzionari americani della missione ai danni di verificatori che, per aver puntato il dito contro i misfatti dell'Uck, venivano bollati come filoserbi.
Il 23 i direttori delle testate in lingua albanese convocano una conferenza stampa presso il Kosovo Information Center (Kic) per denunciare la condizione della stampa kosovara e le intimidazioni da parte del ministero per l'Informazione serbo che minaccia di farli chiudere. Qualcuno, come il quotidiano Buiku , ha già sospeso la pubblicazione: le ragioni, scoprirò poi, saranno per metà economiche e per metà politiche. In quell'occasione conosco Enver Maloku, il direttore del Kic, che verrà assassinato il 12 gennaio in un agguato, indirettamente rivendicato, con minacce analoghe su Walker, dallo squadrone di estremisti serbi "Crna Ruka" (La Mano Nera).
A Natale, il Kosovo tornò sulle prime pagine e nei titoli di testa grazie alla rottura della tregua da parte dell'Uck, che aveva bloccato una strada importante nei pressi di Podujevo, e della pesante risposta delle truppe serbe. Passammo la vigilia in emergenza, con una conferenza stampa di Walker nel tardo pomeriggio e i telefoni che squillarono in continuazione fino a notte.
La tensione nell'aria diventò tangibile e mi rese insicura. Il collega ravennate era partito per le ferie di Natale, in casa ero da sola, la notte non riuscivo a dormire: sognavo trappole dappertutto. Di lì a qualche giorno mi trasferii in pieno centro, in una villettina dove già alloggiavano i militari italiani arrivati per primi in Kosovo: qualcuno che, in caso di necessità, mi avrebbe saputo tirare fuori dai guai. A Natale scese anche la prima ondata di giornalisti italiani dall'inizio della missione e così dovetti intensificare il mio ruolo di ufficio stampa.
I media intanto si erano scatenati: soffiavano sul fuoco con allarmismo. In un appunto di quei giorni scrivo: "Cerchiamo affannosamente di comunicare ai nostri governi che la situazione non è così drammatica: si tratta di scontri circoscritti e non di un'offensiva in grande stile, tantomeno di un preludio ad una 'nuova guerra mondiale'". L'ambasciatore Walker, il capomissione americano, partì per gli Usa a fine mese. Il suo vice principale, Gabriel Keller, che curava il settore "political external" (mentre invece il "political internal" era affidato al russo Vladimir Ivanofksij, in seguito chief advisor di Viktor Chernomirdyn durante la recente, estenuante fase negoziale) assunse la responsabilità della missione, affiancato dagli altri vice, uno per ogni paese del Gruppo di contatto più la Norvegia, che da gennaio avrebbe ottenuto la presidenza di turno dell'Osce.
Il vice italiano era ancora per così dire "latitante" - perché non ancora identificato da Roma dopo il ritiro del primo candidato - sebbene gli spettasse un settore importante come polizia e affari giudiziari.
Benché si fosse raggiunto un nuovo cessate-il-fuoco tra serbi e Uck, cominciarono ad arrivare le prime dure condanne anche agli albanesi, in particolare da parte del ministro della difesa francese Richard. Il 5 gennaio una bomba a mano esplode in un bar di Pristina frequentato da serbi, senza fare vittime: è il primo attentato dal mio arrivo. Quella sera due miei coinquilini sono in giro, la notizia arriva alle 22. Dal mio diario: "Ho tentato di chiamarli via radio, ma non rispondono. Poi arrivano incolumi a casa. Sento per la prima volta l'emergenza diretta, il rischio vicino. Penso all'Irlanda del Nord".
La sera del 6 gennaio si festeggia il Natale ortodosso. Il caldo consiglio è quello di non uscire perché si spara. In aria, ma si spara. E infatti quella notte non riesco a dormire. Il giorno dopo parto per Belgrado con un collega per prendere i primi contatti con l'ambasciata italiana e i giornalisti jugoslavi. In quei giorni l'Uck sequestra otto soldati dell'esercito serbo, perlopiù militari di leva. L'8 non riusciamo a tornare dalla capitale perché scoppiano disordini sulla strada per Podujevo e intorno a Mitrovica. Arriviamo a Pristina il 9: l'Osce è in pieno negoziato per il rilascio degli ostaggi che avviene, con successo, il giorno 13.
L'appuntamento è presso il nuovo comando dell'Uck, nei
pressi di Glogovac. Io vado sulla blindata della Rai. Seguiamo il convoglio
di vetture Osce che ci fa fare un giro incredibile per poi infilarsi in
una strada sterrata e fangosa in piena campagna. Ad un certo punto, scorgiamo
figure in tuta mimetica armate. Più avanti, assistiamo ad uno schieramento
teatrale di forza militare Uck: impettiti e sull'attenti, una lunga fila
di guerriglieri armati, fucile imbracciato, si snoda lungo il bordo dell'ultimo
tratto di strada. Pioviggina. Il rilascio è previsto per le 10,30,
ma non avverrà prima delle 16 e in altra località: a negoziarlo
saranno insieme al capomissione Osce, il rappresentante dell'Ue e l'inviato
americano Christopher Hill. A noi verrà dato soltanto l'annuncio,
dopo cinque ore di estenuante attesa nella fanga e sotto la pioggia. Nel
frattempo mi ritrovo a negoziare con i soldati dell'Uck la sicurezza dei
giornalisti serbi presenti, incluso Micki, il bravo cameraman della Rai
di Belgrado. Chiedono dove sia l'accredito di Demaqi: ormai i giornalisti
devono accreditarsi anche presso l'Uck. Ennio Remondino in quell'occasione
si batte bene. Riusciamo a piantare una tale grana verbale, io in inglese
dall'alto del mio titolo e lui in italiano gesticolante, che i guerriglieri
alla fine desistono e accettano la presenza di tutti i giornalisti serbi,
già debitamente allontanati dal resto del gruppo. A questo punto
però il mio capo decide invece di allontanarli, meno Micki, "per
ragioni di sicurezza". Perché, se ce l'avevamo fatta?
(1. continua)
*Ufficio dei portavoce della missione Osce a Pristina